La casa prima di tutto: nascita e sviluppo dell’approccio ”Housing First”

Supportare le persone senza dimora, avendo nella casa il punto di partenza e non di arrivo: tre pionieri di questa modalità di intervento hanno raccolto la loro esperienza in un libro, tradotto in italiano da FrancoAngeli

18 febbraio

L’editore FrancoAngeli ha pubblicato il volume Housing First. Una storia che cambia le storie, scritto da Deborah K. Padgett, Benjamin F. Henwood e Sam J. Tsemberis e tradotto in italiano da Alice Stefanizzi. Il libro traccia un primo bilancio dell’approccio Housing First, che propone di vedere la casa come punto di inizio e non come traguardo nell’intervento con le persone senza dimora. Attraverso una ricostruzione dei primi passi di questo approccio gli autori – tutti a vario titolo coinvolti nella nascita del modello – si interrogano sui risultati raggiunti e sulle sfide ancora da affrontare a quasi 20 anni di distanza. FrancoAngeli inserisce il libro nella collana “Povertà e percorsi di innovazione sociale” curata da fio.PSD (Federazione Italiana degli Organismi per le Persone Senza Dimora) collegandolo idealmente al precedente volume curato da Caterina Cortese (che avevamo recensito qui).

Qualcosa sul volume…

Il volume, come già accennato, è stato curato da tre protagonisti dell’approccio Housing First (HF). Tsemberis è fondatore dell’associazione “Pathways to Housing”, il progetto di intervento sperimentale avviato a New York City nel 1992 che ha rappresentato un primo laboratorio per l’ideazione dell’HF. Henwood e Padgett hanno svolto ruoli di coordinamento all’interno dell’associazione e si occupano di ricerca sociale.

Il volume è suddiviso in tre sezioni. La prima – composta dai capitoli 1, 2 e 3 – ripercorre la nascita del paradigma HF descrivendo il contesto geografico, sociale e istituzionale in cui è nato e si è sviluppato. Una seconda parte (capp. 4, 5 e 6) descrive le principali ricerche realizzate nel campo dell’HF, dando voce a indagini che hanno saputo misurare l’efficacia dell’approccio e a ricerche che hanno coinvolto i diretti beneficiari. La terza sezione (capp. 7 e 8) illustra la diffusione della pratica dell’HF negli Stati Uniti e a livello internazionale, interrogando lettori e lettrici su potenzialità e limiti della diffusione di un approccio nato in specifici momenti e contesti.

Il volume si conclude con alcune riflessioni di sintesi che mirano ad aggiornare il modello e a interrogare in profondità tutto il sistema di servizi per la homelessness.

Nascita e consolidamento dell’approccio Housing First

Il metodo HF – avviato dal progetto “Pathways to Housing” – si rivolge agli adulti senza dimora in condizioni di difficoltà e disagio. Come sottolineano gli autori, la maggior parte degli adulti senza dimora riesce a trovare un alloggio – grazie all’aiuto di supporti più o meno formali – nel giro di pochi giorni o settimane. Così “i contorni dei servizi per persone senza dimora sono delineati sulla base dei bisogni di chi è invece rimasto indietro, (…) persone con importanti disagi mentali, abuso di sostanze, problemi di salute, una combinazione di questi fattori” (p. 17). È a queste persone che si rivolge anche l’HF, un approccio nato in contrasto rispetto al diffusissimo modello “a gradini”. Quest’ultimo prevede l’adesione a un percorso di trattamento che mira a cambiare significativamente il proprio stile di vita quale requisito fondamentale per accedere, dopo diversi gradini prestabiliti, alla possibilità di vivere in un’abitazione propria. Questo approccio affonda le sue radici storico-morali in una concezione delle politiche sociali e di contrasto alla povertà, tipicamente statunitense, che vede la persona come unica e fondamentale fautrice del proprio destino e della propria eventuale condizione di povertà ed esclusione sociale. La persona emarginata deve così dimostrare di essere responsabile e di meritare una nuova opportunità di vita indipendente. In questa scalata verso la casa alcuni gradini sono troppo alti, l’ascesa è troppo ripida, i fallimenti scoraggianti; così le persone più fragili – con una disabilità psichica, una storia di abusi alle spalle – sono escluse nuovamente anche dal percorso orientato alla loro inclusione. L’approccio HF pone invece al centro dell’intervento l’autodeterminazione della persona e propone di avviare il percorso di accompagnamento proprio con la casa. Alla persona sono forniti diversi supporti ma non è richiesta l’adesione ad alcun programma di intervento o riabilitazione.

Il volume, dopo aver approfondito alcuni elementi essenziali della nascita e del funzionamento dell’approccio HF, ospita un interessante approfondimento sulle caratteristiche che la homelessness ha assunto nel corso degli anni negli Stati Uniti e pone a confronto i tre storici modelli di intervento in questo campo: filantropia di ispirazione religiosa, advocacy e attivismo in difesa dei diritti umani, grandi organismi con culture e funzionamenti di tipo aziendale. Il volume rende conto anche dell’accurato percorso di autovalutazione implementato fin dall’inizio da “Pathways to Housing”e delle ricerche basate su evidenza empirica realizzate sull’approccio HF. Da notare, in particolare, la misurazione del tasso di stabilità abitativa nei diversi progetti di HF realizzati negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni Novanta: si va da un minimo di 77% di mantenimento dell’abitazione registrato nell’esperienza di Seattle (Washington) al picco di 88% di casi di stabilità abitativa a New York. Come sottolineano gli autori, le ricerche realizzate a partire dagli anni Duemila hanno trasmesso un messaggio inedito: “fornire un accesso immediato a un appartamento e servizi di supporto a qualcuno che fosse affetto da un disturbo mentale o fosse tossicodipendente non solo era umano, ma anche economicamente vantaggioso” (p. 84).

“Mi sono innamorato di quella casa”

Come anticipato, il volume raccoglie anche diverse ricerche qualitative che mirano a dipingere volti e storie dietro alla pur significativa efficacia quantitativa dell’approccio HF.

Le storie dei protagonisti degli interventi rispecchiano perfettamente il metodo HF e i limiti che caratterizzano il percorso a gradini. Come racconta Alfred, 49 anni.

“Ero quel tipo di persona che la società giudica irrecuperabile. Mi dicevano cose come “Faresti meglio a morire”. (…) Ho fatto abuso di droghe per 20 anni. Pensavo solo che fosse più semplice restare com’ero piuttosto che cercare di fare qualcosa. Iniziai a perdere la fiducia nella possibilità che mi aiutassero” (pp. 104-5)

Alfred descrive l’ingresso nella casa e nel percorso HF come una vera rivelazione, come la base per potersi finalmente dedicare alla cura della sua malattia mentale e della sua dipendenza da sostanze: “Mi sono innamorato di quella casa. (…) Era l’unico posto che avessi mai avuto e che era solo mio. Che aveva il mio nome” (p. 105).

La scelta di affiancare ai contenuti teorici i racconti delle persone e delle storie rafforza l’intento di analisi e divulgazione del volume, dando un’immagine completa della nascita e dell’evoluzione dell’approccio HF. Proprio sulla base di queste due anime il libro conduce linearmente il lettore fino al capitolo conclusivo, dove gli autori si interrogano sui persistenti ostacoli all’HF e sulla necessaria specificazione dei passi che devono venire dopo la casa (la casa prima, cosa per secondo?). Il volume si conclude con l’individuazione di alcune questioni rilevanti – giovani e famiglie, dimensione organizzativa e istituzionale dei servizi per la homelessness – rispetto a cui l’approccio HF dovrà sapersi fare portatore di istanze volte all’affermazione dell’autodeterminazione della persona.

Riferimenti

Deborah K. Padgett, Benjamin F. Henwood e Sam J. Tsemberis (2018), Housing First. Una storia che cambia le storie, Milano, FrancoAngeli