Dalla parte degli ultimi

di Alberto Rizzardi

Scarp ha scelto di andare in strada di notte per raccontare cosa fanno le ronde. Quelle vere. Nate per portare aiuto a chi in strada è costretto a dormire. Perché ha commesso un errore o si è ammalato o semplicemente perché a volte la vita sa essere davvero crudele. Da Milano a Napoli, da Torino a Verona sono 229 le ronde della solidarietà censite da Istat e fio.PSD che, sera dopo sera, portano aiuto e conforto a chi dorme al freddo. Un panino, un tè caldo, una coperta, ma anche solo un sorriso o una stretta di mano. Quello che le centinaia di volontari fanno tutte le sere è cercare di entrare in relazione con queste persone per capire se e come possono essere aiutate ad uscire dal buco in cui sono cadute. Lo fanno perché spinti da una vocazione o solo perché dopo ci si sente meglio. Ma raccontano il cuore grande del nostro Paese.

Di ronde ultimamente si parla spesso in Italia: di un tipo di ronde, in particolare, definite variamente “per la sicurezza, contro l’illegalità, per il controllo del territorio”. Sono tante, anche perché un problema d’insicurezza percepita c’è, e alcune hanno fatto discutere, come il caso dei pattugliamenti di Forza Nuova e Casa Pound. Si parla molto meno, invece, di un altro tipo di ronde: quelle della solidarietà. Anche qui gruppi di persone vanno in giro a perlustrare e ispezionare una determinata zona, con un unico obiettivo: tendere una mano, regalare calore a chi dorme in strada. Variegata e numerosa platea quella dei senza dimora: oltre cinquantamila in Italia, secondo i dati Istat del 2015. «Il profilo dominante? Uomo, straniero, che vive al nord ed è solo – racconta Caterina Cortese della Federazione italiana organismi per le persone senza dimora – ma c’è un 30% di altri profili in aumento, tra cui donne, spesso vittime di tratta e violenza domestica, e giovani tra i 18 e i 35 anni; dato allarmante che ci deve far riflettere su come rispondere e migliorare i servizi». Missione non impossibile, ma difficile, perché il fenomeno dei senza dimora è complesso: il 39% delle persone incontrate l’anno scorso (circa duecentomila in totale) nei duemila centri d’ascolto presi in esame dall’ultimo Rapporto Caritas, manifestava, per esempio, problematiche afferenti a tre o più ambiti di bisogno tra povertà economica, occupazione, casa, salute, problemi familiari, dipendenze e altro. Ad aggravare il tutto c’è, poi, una cronicizzazione dei bisogni.


Aiuto o assistenzialismo?

In questo contesto, quale il senso e il ruolo delle varie ronde della solidarietà e delle unità di strada (229 quelle censite dall’Istat in 158 Comuni): servono o, come lamenta qualcuno, si rischia di sfociare nell’assistenzialismo? «L’attività delle ronde della solidarietà e delle tante altre realtà di volontariato sono essenziali per rispondere a un bisogno immediato di fame, di sete, di freddo, anche di relazioni – afferma Cortese –. Detto ciò, il fenomeno, proprio per la sua complessità, richiede interventi multipli». Attenzione: degli oltre cinquantamila senza dimora solo il 3% ha dichiarato di ricevere sussidi da Comuni o altri enti pubblici; il 62% ha, invece, un reddito mensile proveniente da attività lavorativa, pur se irregolare e saltuaria, con un guadagno medio mensile tra 100 e 500 euro, mentre il 30% vive di espedienti e collette e il 17% non ha alcuna fonte di reddito. Senza dimora, dunque, non è per forza sinonimo di assistenzialismo. Se lo scenario è complesso e variegato, bisogna agire di conseguenza. Molte ronde della solidarietà non si limitano a portare assistenza, cibo e vestiario di emergenza a chi vive per strada; l’aiuto materiale è solo il primo passo per instaurare una relazione di fiducia reciproca, che permetta nel tempo di accompagnare le persone in un percorso di reinserimento. Il cammino, però, è lungo: servono strumenti adeguati, interventi strutturali e una visione strategica, aspetto su cui c’è ancora tanto da fare.


Serve più coraggio

«Bisogna essere più coraggiosi e ottimizzare le risorse» sintetizzano dalla fio.PSD. Eppure qualcosa si muove: tanti i Comuni (circa duecento) che si sono dotati di una via fittizia dove i senza dimora possono fissare la residenza anagrafica e, di conseguenza, far richiesta di documenti come carta d’identità e tessera sanitaria, ritrovando anche il diritto al voto, nella speranza che dall’aggancio con i servizi anagrafici e sociali comunali si attivi un percorso di progettazione, facendo uscire queste persone dall’invisibilità. Soluzioni, insomma, dall’hic et nunc alla visione di lungo periodo, anelli diversi di un’unica catena solidale. Sul fronte Housing first, l’innovativo approccio in tema di senza dimora che fissa l’abitazione come punto di partenza e non obiettivo finale di un percorso di contrasto all’homelessness l’Italia appare ancora un po’ ferma. «La sperimentazione, partita nel 2014, va avanti con una trentina di progetti pilota: grazie ai finanziamenti statali stiamo seguendo anche altri territori (Veneto, Campania, Sicilia) e grandi città come Milano, Torino e Bologna – spiega Cortese –. Non può essere, certo, l’unica soluzione, ma è un approccio innovativo: serve del tempo ma i risultati sono incoraggianti».